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Tratto da MusicaLiturgica.altervista.org[1]

Indice

Premessa

Questa trattazione complessa ed articolata intende fornire all’utente tutti i sussidî ed i chiarimenti di cui necessita riguardo al canto gregoriano. Chiarimenti soprattutto di natura strutturale e schiettamente pratica; non di ordine teorico o teologico o ancor piú musicologico. Si consiglia di leggere questo sussidio prima di avventurarsi in quello sui Vespri o sulla Messa, giacché in codeste trattazioni si dànno per scontati elementi che non sono immediati e potrebbero risultare oscuri per il lettore profano o non pratico dell’argomento.

Non è nostra intenzione quella di stilare un trattato teorico-pratico di canto gregoriano che competa con quelli scritti da eminenti studiosi gregorianisti, né abbiamo la presunzione di sostituirci alla preziosa risorsa dell’esperienza di tanti maestri di cappella e praticanti del canto gregoriano. Tuttavia, e ci preme sottolinearlo, questo manuale non nasce dalla trasposizione in chiave semplicistica di nozioni scritte in un manuale, in un corso scritto; anzi, qui di teoria si troverà proprio il minimo indispensabile, ciò che basta di storico per inquadrare la tematica e quanto abbisogna per evidenziare certe problematiche d’interpretazione. Tutt’altro: questa trattazione si basa sull’esperienza diretta sul campo e su quella indiretta di maestri e insegnanti, la quale è stata unita sia al necessario fondamento teorico che al buonsenso ed alla facoltà di cercare soluzioni adeguate per le parrocchie, dato che non tutte le realtà italiane sono in grado di adottare il canto gregoriano in modo completo.

Il punto di vista di questa trattazione, dunque, prende le mosse dalla necessità di finalità pratiche nella realtà e dalla giusta educazione formale, dalla quale non si può prescindere. Ma soprattutto, è nostra intenzione recuperare il canto gregoriano in funzione della motivazione originale per cui è nato: la liturgia. Dimenticare che liturgia e canto gregoriano sono una cosa sola, inscindibile e perfettamente armonizzata significa ridurre a mera archeologia ed a sterile accademismo tutto quanto è stato detto, viene detto e sarà detto su di esso.

Cenni storici e generali

Il canto gregoriano è il canto proprio della liturgia cattolica. Almeno fino a metà del Basso Medioevo, con l’inizio della polifonia vera e propria, liturgia e canto gregoriano avevano il medesimo significato: non esisteva liturgia senza canto, né canto (o, piú precisamente, musica) esisteva senza liturgia.

Esso venne elaborato sin dal tardo VII secolo, risultando dalla fusione del canto romano antico con quello gallicano. Generalmente si attribuisce la riunione e la raccolta delle melodie in un volume unico (Antifonario) a papa Gregorio I “Magno”, sebbene gran parte del repertorio gregoriano risalga a non molto prima del IX secolo, epoca in cui Gregorio era già scomparso; probabilmente l’Antifonario di Gregorio, andato perduto, conteneva melodie proprie del canto romano antico, oppure melodie di sua stessa composizione, dato che dalle fonti emerge il fatto della sua perizia in àmbito musicale.

Si deve al proposito ricordare che non si conoscono gli autori dei canti gregoriani, tanto meno quelli dei canti romani antichi (quest’ultimi non erano neanche scritti, come diremo in séguito), trattandosi probabilmente di religiosi che componevano una melodia per le liturgie del proprio monastero; da ciò si può ben immaginare come inizialmente non si pensava certo di diffondere le melodie. Ogni monastero e ogni comunità religiosa (in senso lato, anche le diocesi) possedeva dunque un repertorio proprio; qualche canto poteva essere comune a piú territori, ma è difficile pensare che una chiesa franca cantasse le medesime melodie di una basilica romana.

Esiste quindi una controversia sull’origine effettiva del canto gregoriano: si ipotizza che nei secoli precedenti Gregorio Magno prevalesse la figura del rapsodo, che componeva le varie melodie attraverso dei centoni, ovvero frammenti di schemi melodici che venivano combinati in varî modi per formare una linea completa. Nel repertorio oggi sopravvissuto si possono osservare questi centoni in particolari composizioni. Per concludere questa breve nota storica, c’è da ricordare che il canto gregoriano come lo vediamo ad oggi probabilmente non corrisponde a quello che i monaci altomedievali cantavano. Nel tempo al repertorio tardo antico si aggiunsero infatti nuove melodie, composte nel Basso Medioevo o nel Rinascimento, alcuni addirittura si spingono al XVI secolo; i canti esistenti, inoltre, furono modificati e adattati, talvolta rielaborati in forme polifoniche misurate (organum). Alcune composizioni tardo-gregoriane, come ad es. la Missa VIII de Angelis, perdono le caratteristiche proprie del gregoriano, in particolare la struttura armonica modale. Per stabilire se un canto è autenticamente gregoriano, occorre visionare il cosiddetto Antiphonale Missarum Sextuplex, raccolta dei sei piú importanti manoscritti che attestano le melodie gregoriane; è stato composto nel 1935 e rimane un’opera fondamentale per lo studio sistematico del canto gregoriano. Molti dei canti piú noti non sono autentici canti gregoriani, ovvero non sono attestati nell’ Antiphonale Sextuplex; si tratta di melodie ispirate all’estetica gregoriana, ma composte in epoche successive con canoni stilistici ovviamente diversi da quelli dell’età tardo-antica.

La caratteristica principale che distingue il canto gregoriano è la sua linea unisona, ovvero lo si esegue senza accompagnamento di strumenti né in polifonia di voci. Si ha dunque nel gregoriano uno sviluppo preminentemente orizzontale, differentemente dalla polifonia ove lo sviluppo delle linee è verticale o comunque composito tra verticale ed orizzontale. I monaci che lo praticavano alimentavano lo spirito di convivenza e fratellanza appunto cantando ad una voce sola, che annulla ogni individualismo ed ogni separazione nel gruppo, il quale diventa cosí una voce unica in preghiera a Dio. È un concetto che permane nello spirito dei cori contemporanei, sebbene in misura minore.

Lo sviluppo orizzontale del canto gregoriano e la sua apparente povertà esteriore fa quindi che in esso non si ammettano costrizioni ritmiche o melodiche: l’andamento della linea segue gli accenti tonici ed il significato del testo a cui è legata, fatto per cui nel canto gregoriano non esiste suddivisione di tempo, che viene dal testo, né regole melodiche vincolanti, neppure quando in passaggî melismatici ed ornati è la melodia che esprime un concetto insito nel testo, prevalendo su di esso.

È per questo motivo che a buon diritto si cita il canto gregoriano come massimo esempio di rapporto strettissimo tra testo e melodia: la melodia non solo è a totale servizio del testo, ma addirittura ne interpreta, con le sue figurazioni, il significato. L’assenza di ritmo definito non deve certo far pensare che non esista un ritmo: esso viene dal testo, dalla sua entità teologica e dalla sua collocazione funzionale nella liturgia. Un canto per la Messa sarà differente da uno per la Liturgia delle Ore, sia per il significato, sia per la necessità pratica che lega il gregoriano alla liturgia.

Repertorio gregoriano

Riguardo al repertorio gregoriano, si deve ricordare che la grande mole delle melodie si può suddividere in tre grandi famiglie di tipo stilistico:

  • i canti di genere sillabico (accentus), in cui ad ogni nota corrisponde una sillaba;
  • i canti di genere neumatico (concentus semiornato), in cui vi sono sillabe alle quali corrispondono due o tre note;
  • i canti di genere melismatico (concentus ornato), in cui ad ogni sillaba possono corrispondere diverse note ed in cui la melodia prevale in un certo senso sul testo (ma si veda supra).

Dal punto di vista del genere di composizione, nel repertorio gregoriano troveremo, per quanto riguarda i canti dell’Ufficio delle Ore diverse forme compositive:

  • Antifona, breve frase melodica associata a salmi che viene ripetuta dopo ogni versetto;
  • Cantico, componimento consistente in un certo numero di versetti, cantati senza alcun ritornello (modo in directum);
  • Responsorio, anch’esso legato ad un salmo, è una melodia ornata o semiornata che segue le letture ed è caratterizzato dall’interazione solista/assemblea. Il responsorio può essere breve o prolisso a seconda della mole dello stesso;
  • Inno, composizione poetica generica che apre ogni sessione dell’Ufficio.

Per quanto riguarda i canti della Messa, distingueremo invece:

  • i canti dell’Ordinario (Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei), che non mutano mai nel testo e sono disponibili in diverse melodie a seconda del tempo liturgico;
  • i canti del Proprio, i cui testi variano a seconda delle festività:
    • Introito, il canto che accompagna la processione d’ingresso, che ha come testo la corrispondente antifona. È in genere in stile semiornato;
    • Graduale, corrisponde all’odierno salmo responsoriale, composto in stile ornato, spesso vere e proprie manifestazioni di virtuosismo vocale. Le melodie dei Gradualia sono composte da centoni, ovvero frammenti melodici ricorrenti nelle linee degli altri e sono tra le piú belle e suggestive del repertorio gregoriano;
    • Alleluia, dalla melodia in genere sillabica o comunque poco ornata, contiene l’acclamazione “alleluia” tre volte, dove la -a finale della terza prosegue in complesse fioriture melismatiche, dalle cui propaggini prendeva inizio la Sequenza. Nel tempo di Quaresima, l’Alleluia era (ed è) sostituita dal Tratto, anch’esso eseguito nel modo in directum;
    • Sequenza, che segue l’Alleluia, è una composizione generalmente sillabica o semiornata, attestata oggi nelle festività piú importanti. Nel medioevo furono scritte centinaia di sequenze, delle quali sono sopravvissute solo quattro (Stabat Mater, Victimae Paschali, Lauda Sion, Dies Irae).
    • Offertorio, in stile semiornato o ornato, accompagna la processione offertoriale ed i riti ad essa collegati. Sebbene in origine avesse una forma responsoriale, in séguito i versetti furono aboliti e l’Offertorio si limitò alla sola antifona;
    • Communio, anch’esso in stile piú o meno ornato, accompagna la processione eucaristica dei fedeli ed è di forma responsoriale, associato ad un salmo;
  • i salmi, i versetti, i cantici e tutte le parti variabili di un brano, senza melodia propria, vengono cantati generalmente secondo i toni salmodici, che sono uno per ogni modo, piú uno (tonus peregrinus) di uso particolare

e circoscritto ed altri assai rari (tra cui i toni in directum e irregularis).

Per quanto riguarda la loro ripartizione fisica nei volumi, le melodie vengono ripartite a seconda del loro uso: si parla di Graduale per le parti riguardanti la Messa (Proprio e Comune, quest’ultimo comprendente le parti del proprio accorpate per classi omogenee di festività, come Martiri, Confessori, Beata Vergine ecc.), e di Antiphonale per le parti della Liturgia delle Ore; il Liber Usualis costituisce un tomo di composizione eterogenea contenente sia parti relative a Messa che a Liturgia delle Ore; il Kyriale contiene le parti dell’ordinario e i moduli fissi per orazioni, letture, risposte, salmi. Oltre a questi tre libri fondamentali, si aggiungono altri testi ad uso particolare e specifico.

Semiografia della notazione quadrata

 

Il canto gregoriano è scritto mediante la notazione quadrata, di tipo diastematico, ovvero che colloca i segni indicanti ogni sillaba (neumi) entro linee e spazi definiti. L’invenzione di questo tipo di notazione, i cui primi embrioni si rintracciano a partire dal XI secolo, è attribuita con una semplificazione storica al monaco camaldolese Guido d’Arezzo. Prima del IX-X secolo, periodo in un cui iniziò una ricerca della diastemazia, ovvero la definizione degli intervalli melodici, la musica veniva trascritta in modo adiastematico, ovvero con neumi in campo aperto, senza alcun riferimento in base all’intervallo o all’intonazione. Questo sistema di scrittura, che permane ancóra oggi nel canto bizantino, in pratica aveva significato solamente per chi già conosceva la melodia, dando indicazioni esecutive sia dinamiche che agogiche attraverso le cosiddette litterae significativae, le quali indicavano come procedere nell’esecuzione allo scorrere del testo.

L’utilizzo di una simile notazione, come si può facilmente arguire, doveva creare diversi problemi di entità tecnica: i cantori erano costretti ad imparare a memoria una grande quantità di melodie prima di essere in grado di cantare adeguatamente nella liturgia; ciò richiedeva oltre venti anni. Proprio a questa difficoltà di formazione dei musici cercò di ovviare Guido d’Arezzo o chi per lui inventò la notazione quadrata.

In questa notazione i neumi sono posti in spazî e linee di un tetragramma, ossia un rigo a quattro linee. All’inizio del rigo si trova la chiave (1) , che indica la posizione di una nota del rigo e fornisce il punto di riferimento per leggere la linea. Esistono due tipi di chiavi, quella di do e quella di fa, utilizzata raramente. Possono trovarsi su diverse linee, a seconda dell’estensione del brano (ambitus), la chiave di do sulla terza o sulla quarta indifferentemente, raramente sulla seconda, mai sulla prima; la chiave di fa si trova solo sulla terza linea, ad eccezione di rarissimi casi in cui si trova sulla quarta. Qualora l’ambitus sia particolarmente ampio e superi lo spazio disponibile nel tetragramma, si supplisce con taglî addizionali sopra o sotto il rigo, altrimenti è possibile spostare o cambiare la chiave.

Alla fine di ogni tetragramma si trova la cosiddetta guida custos (9) che indica la nota seguente che si troverà nel rigo successivo. Non ha alcun significato musicale, ma è solo un aiuto per permettere una lettura piú rapida e scorrevole al cantore.

Poiché il canto gregoriano è essenzialmente al servizio del testo, all’interno di esso saranno segnalate delle pause e delle cesure. Ciò viene fatto attraverso le stanghette:

  • il quarto di stanghetta (divisio minima) indica la fine di un inciso e, nella pratica, un breve respiro (7);
  • la mezza stanghetta (divisio minor) indica la fine di un membro del brano, composto da piú incisi, e rappresenta nella pratica una breve pausa (10);
  • la stanghetta intera (divisio maior) indica il termine di un periodo musicale e coincide spesso con la fine di una frase del testo;
  • la stanghetta doppia (divisio finalis) segna la conclusione del brano oppure l’alternanza tra coro/assemblea e solista (in particolare nei canti dell’Ordinario) (8).

Gli intervalli e, in misura minore, il ritmo, sono scritti mediante i neumi (2). Ogni neuma trascrive una formula melodica corrispondente ad una sillaba; è perciò sbagliato dire che un neuma corrisponde ad una nota moderna, poiché non necessariamente una di esse corrisponde ad una sillaba. Diversamente, un neuma trascrive sempre e comunque una sola sillaba, anche nei casi di figurazioni neumatiche assai complesse. Nella semiografia gregoriana si distinguono i seguenti neumi:

  • il punctus, unità elementare. Corrisponde alla nota isolata e ritmicamente rappresenta quasi sempre una nota di passaggio; nel genere sillabico, ove il punctus ha la prevalenza, questi assume un valore ritmico praticamente

neutro, cui si oppone solo il punctus con il punto, che ne allunga la durata. Si presenta anche in forma di losanga (p. inclinatus) allorché assume un ruolo subordinato di nota d’insieme;

  • la virga, che nelle arcaiche notazioni adiastematiche aveva un significato di innalzamento melodico, ha un ruolo fondamentale nel sorreggere e supportare il ritmo della frase segnalando due attacchi consecutivi.

Quando è seguíta da puncti inclinati per formare il climacus, segna l’accento maggiore della frase;

 

  • la stropha (o strophicus) è un neuma secondario che non si trova mai da solo, ma solo in combinazioni di altre figurazioni, dette distrophae o tristrophae, a seconda se in esse si ripeta due o tre volte il neuma strophicus; sebbene la tendenza comune sia quella di interpretare la distropha o la tristropha come un punctum di doppia durata, in realtà l’iterazione delle due note deve farsi sentire. Inoltre, oggi si interpretano queste

figurazioni come ripetizioni di note alla medesima altezza, ma pare che in antichità – e lo confermano le notazioni adiastematiche – le si interpretassero come un lieve vibrato o tremolio della voce, salendo o scendendo di un semitono;

  • la clivis rappresenta un gruppo di due note discendenti, cantate in ordine dall’alto verso il basso. Ritmicamente è una figurazione accentata, in cui la prima nota riceve sempre un accento d’intensità, per poi proseguire

con l’altra che sarà subordinata ad essa;

  • il pes (o podatus) è un gruppo di due note ascendenti, cantate in ordine dal basso verso l’alto. La prima nota riceve un accento prettamente ritmico, senza implicazioni d’intensità, dato che il pes in genere rappresenta l’elemento di raccordo tra due frasi differenti;

 

  • il climacus è un neuma di tre o piú note, composto da una virga seguíta da puncti inclinati. È un piccolo melisma discendente, il cui accento è generalmente posto sulla virga: raramente e solo in caso di frasi molto lunghe, un lieve accento può cadere su una nota di mezzo. I gregorianisti concordano nel definire il climacus cosí come lo abbiamo presentato come una confusione con la virga subpunctis: il climacus nelle notazioni adiastematiche di Laon e di San Gallo (le piú antiche e significative) è infatti una figurazione leggera, ornamentale e priva di accento proprio;
  • lo scandicus ed il salicus sono neumi di tre note ascendenti, non distinti tra di loro nella notazione vaticana. Per la loro rappresentazione sono impiegati indifferentemente sia la composizione di un punctum e

un podatus che un pes che precede una virga. Li si interpreta come aventi un accento sulla terza nota, considerando dunque le prime due come ornamenti;

 

  • il torculus è un neuma di tre note, la seconda piú acuta delle altre due. È una figurazione che riceve un leggero accento di spinta sulla prima nota, ma mette in evidenza anche le altre due, anzi, è la seconda nota a rappresentarne la vetta e quindi è quella che può imporsi sulle altre sia in durata che in intensità. L’ultima nota, infine, conduce alla conclusione e come tale è rilassata e calma;
  • il porrectus è la variante grave del torculus, essendo composto da tre note, di cui la seconda è la piú grave. A livello ritmico la prima nota del porrectus è forte ed accentata, la seconda e la terza sono secondarie;

 

  • il quilisma è una nota dentellata di forma irregolare che si trova sempre al centro di un movimento ascendente e mai da sola. Il suo effetto è quello di prolungare leggermente la nota che lo precede, senza avere alcun

effetto sul suo stesso ritmo.

 

Nella notazione quadrata ogni neuma può essere provvisto o meno di segni d’accento convenzionali. L’episema orizzontale (4) indica che il neuma sottostante deve essere interpretato con un accento che ne aumenti la durata; l’episema verticale (5) indica che quel neuma è un appoggio ritmico e come tale va evidenziato; il punto mora (6), infine, raddoppia la durata della nota a cui è apposto e indica che quel neuma è un elemento ritmico a sé stante o una sillaba di particolare importanza. Non a caso gli episemi verticali e orizzontali si trovano spesso sulle sillabe di parole come Deus, Dominus o simili per dare ad essere maggior risalto.

Il canto gregoriano si sviluppa in una melodia prevalentemente diatonica, seguendo una scala naturale, detta modo, di cui si parlerà in séguito, per cui non ammette alterazioni, ad eccezione del bemolle (3); questo può essere applicato al si, se quest’ultimo venisse a creare quella figurazione chiamata tritono. A tal proposito si ricorda il distico mnemonico medievale:

Una nota super la, semper est canendum fa.

In pratica, quando l’ambitus della melodia superava l’esacordo naturale allora ammesso (do-la), si ricorreva alla pratica della solmisazione, che consisteva nel trasporre l’esacordo naturale una quarta ed una quinta sopra: quello che partiva da fa (fa-re) era detto esacordo molle, e conteneva il si bemolle, mentre quello che partiva da sol (sol-mi) era detto esacordo duro, e conteneva il si naturale. I nomi delle note erano gli stessi per le sei posizioni dei tre esacordi. Con questa pratica era possibile cantare brani il cui ambitus era piú ampio dell’esacordo naturale.

È adesso opportuno parlare anche di come si trascrive la notazione quadrata in quella moderna. Premettiamo súbito che nessuna trascrizione, ancorché accurata, potrà rendere alla perfezione il significato musicale della notazione originale, la quale è già di per sé una semplificazione delle arcaiche notazioni adiastematiche in campo aperto.

Nei secoli passati si consideravano poco le differenze ritmiche che intercorrono tra i neumi diversi, a causa del tempo relativamente lento a cui si eseguiva il gregoriano. A partire dalla Riforma ceciliana, si è approfondita la questione della trascrizione parallelamente alla rivalutazione del gregoriano e la formulazione di accompagnamenti ad esso.

Si possono adottare due metodi di trascrizione: o si fa uso di semplici punti neri (note senza gambo, per intendersi), o si utilizzano appropriatamente figurazioni ritmiche diverse. Sebbene la prima soluzione possa sembrare la piú immediata, essa non ha mai riscosso grande successo, a causa della difficoltà che pone nel caso di debba realizzare per iscritto un accompagnamento; inoltre non definisce bene le differenze ritmiche tra i neumi. Per la seconda soluzione, invece, si consiglia di utilizzare unicamente i valori di croma per la maggior parte dei neumi, e di seminima per quelli particolarmente piú lunghi,

ovvero i neumi con punto mora, i neumi precedenti un quilisma o un gruppo di neumi d’uguale altezza ripetuti piú volte di séguito (come la distropha o la tristropha); in quest’ultima situazione – e solo se alla distropha/tristropha seguono altre note –, dato che effettivamente l’esecuzione sarebbe diversa da una semplice nota piú lunga, si può segnalare la presenza delle strophae con un marcato (^) sopra la nota che le trascrive. Nel caso di gruppi di neumi che stanno sopra la stessa sillaba (melisma), anche nella trascrizione le note si uniscono mediante legatura di portamento e, se si usano le crome, i gambi di esse vanno uniti mediante il noto collegamento trasversale. Riportiamo qui sotto la trascrizione dell’antifona Ubi caritas che abbiamo presentato all’inizio:

 

Strutture armoniche e modalità

Dal punto di vista armonico, il canto gregoriano si sviluppa in un sistema di scale semplici in diverse posizioni. La tonalità è un sistema sviluppato a partire dal Rinascimento che impone una certa rigidità strutturale: si riconosco certe tonalità grazie ad un computo di quinte giuste, le quali stanno tra di sé in rapporti abbastanza stretti. La tonalità di fonda su modulazioni, le modulazioni su alterazioni. E l’uso di modulazioni e di alterazioni è ciò che alla musica tonale dà il sentimento. Il canto gregoriano, invece, non ha nulla di tutto ciò. Tutto il sistema, assolutamente, diatonico in base al quale si regge l’ossatura armonica di questa forma musicale è il modo, o modalità. Un modo consiste in una scala naturale, priva di alterazioni (ad eccezione del si bemolle, attestato tuttavia solo in epoca piú tarda e presente solo in determinate e particolari situazioni), le cui note sono le uniche a comparire all’interno della melodia. Questo concetto implica che all’interno di un canto gregoriano non esistano modulazioni, né sensibili o toniche, sebbene vi si riconoscano alcune note distintive del modo in cui la melodia è scritta.

Il sistema modale ecclesiastico si compone di otto modi, derivati dalla musica greca arcaica, che iniziano con le note dell’esacordo naturale. I modi pari sono detti plagali e si ottengono trasponendo diatonicamente (senza alterazioni) di una quarta discendente i modi dispari, detti autentici. Ogni modo autentico possiede due note di riferimento, la finalis, la nota con cui il brano termina, e la repercussio, ovvero la nota su cui generalmente ruota la melodia del canto. Quindi si individuano i seguenti modi:

  • I (protus autentico), di ambitus re-re, la finalis è re, la repercussio è la;
  • II (protus plagale), di ambitus la-la, la finalis è re, la repercussio è fa;
  • III (deuterus autentico), di ambitus mi-mi, la finalis è mi, la repercussio è do, talvolta si;
  • IV (deuterus plagale), di ambitus si-si, la finalis è mi, la repercussio è la;
  • V (tritus autentico), di ambitus fa-fa, la finalis è fa, la repercussio è do;
  • VI (tritus plagale), di ambitus do-do, la finalis è fa, la repercussio è la;
  • VII (tetradus autentico), di ambitus sol-sol, la finalis è sol, la repercussio è re;
  • VIII (tetradus plagale), di ambitus re-re, la finalis è sol, la repercussio è do.

Si può usare anche una terminologia greca, derivata da attributi di località in cui un determinato modo era piú in voga o piú diffuso. C’è però da dire che i modi dell’antica Grecia non corrispondevano a quelli mutuati nel canto gregoriano: di essi furono ripresi solamente i nomi.

  • I modo, o modo dorico;
  • II modo, o modo ipodorico;
  • III modo, o modo frigio;
  • IV modo, o modo ipofrigio;
  • V modo, o modo lidio;
  • VI modo, o modo ipolidio;
  • VII modo, o modo missolidio;
  • VIII modo, o modo ipomissolidio.

Nei secoli si è affermato che ad ogni modo corrispondesse uno specifico stato d’animo o sentimento. Ciò ha effettivamente un riscontro nella realtà, visto che l’ascolto di brani in modalità diverse dà all’ascoltatore moderno differenti emozioni. Guido d’Arezzo, il fondatore della notazione diastematica gregoriana, affermò in proposito:

Il primo è grave, il secondo triste, il terzo mistico, il quarto armonioso, il quinto allegro, il sesto devoto, il settimo angelico, l’ottavo perfetto.

Il concetto chiave che si trova nella modalità e dunque in ogni canto gregoriano è che ogni suono esiste in relazione a sé stesso. Non esistono relazioni verticali o armoniche che vincolano un suono rispetto ad un altro, come potrebbe avvenire con la sensibile della tonalità, né la melodia può venir forzata (con il limite evidente di questa definizione) verso un certo andamento perché l’armonia deve seguire un certo corso, come avviene invece nella tonalità canonica.

L’unico punto di riferimento per la melodia gregoriana è costituito dall’insieme di ambitus, finalis e repercussio; anche ciò, tuttavia, è talvolta turbato, soprattutto nei canti piú antichi che possono mostrare influssi delle antiche modalità greche o dell’antico canto romano o gallicano.

Pratica e uso del canto gregoriano

Non è qui nostra intenzione proporre un saggio di interpretazione del canto gregoriano né una lezione sulla vocalità da adottare per esso, dato che per questi argomenti esistono trattati scritti da illustri gregorianisti, che sviscerano l’argomento con la dovuta completezza. Ci interessa invece precisare come il canto gregoriano debba inserirsi nella moderna liturgia cattolica. Innanzitutto, si deve ricordare che:

la Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana;[2]
(Sacrosantum Concilium, cap. VI.116)

da cui si evince che è errato ritenere questa forma musicale obsoleta o inadatta alla liturgia moderna e sia per lo stile e sia per la lingua. Non importa che l’esecuzione dei canti gregoriani nella liturgia sia perfetta e filologica, ma basta tener presente alcuni semplici principî per ottenere risultati soddisfacenti. Distinguiamo, quindi, alcuni punti chiave per interpretare ed eseguire correttamente le diverse forme del canto gregoriano.

Riguardo alla vocalità, diremo solo che è buona regola cantare il gregoriano con voce naturale, non impostata liricamente, piana e liscia, in modo da scandire perfettamente tutti gli intervalli e, soprattutto, rendere intelligibile il testo. Non bisogna infatti dimenticare che il canto gregoriano è il trionfo del testo, di cui la melodia rappresenta un rafforzamento del significato. E quindi, le pause e tutti i respiri andranno eseguiti in funzione del testo stesso. Per lo stesso fine, sarà bene evitare l’eccessiva apertura delle vocali, e si cercherà di curare l’addolcimento di certi gruppi consonantici particolarmente aspri. In particolare, le sillabe alla fine di una frase dovranno essere non sostenute con forza, ma come sfumate, né dovranno essere eccessivamente lunghe, soprattutto quando quella frase appena terminata è seguíta o da un’altra strofa (in inni e simili) o continua in un nuovo discorso (come nei canti dell’Ordinario), ma contribuiranno ad esaltare il testo e l’orizzontalità della melodia se “lasciate”, usando un termine tecnico.

Per quanto riguarda i canti dell’ordinario, è lecito che la schola o l’assemblea li cantino interamente da cima a fondo; tuttavia, sarebbe buona abitudine fare in modo che la schola e l’assemblea procedessero alternatim, ovvero alternandosi nel cantare le varie frasi. Lo “scambio” nella notazione gregoriana è facilmente riconoscibile dalla doppia stanghetta. Questo sistema funziona particolarmente bene anche per gli inni, ove alternativamente le strofe vengono cantate dalla schola e dall’assemblea, in modo da rendere partecipe anche quest’ultima e dare un senso al canto, che è e deve essere “preghiera”. Ovviamente, ci sono parti riservate esclusivamente alla schola, come certi brani del Proprio particolarmente complessi.

La forma responsoriale che si trova in antifone, cantici e simili, prevede che l’assemblea o tutta la schola (o esse insieme) cantino un’antifona, alla quale risponde una sezione della schola o un salmista intonando un versetto. Quindi, al termine di esso, l’assemblea o la schola cantano nuovamente l’antifona e cosí via. Il modo in directum, usato raramente nella Messa, ma comune nella Liturgia delle Ore, prevede invece che l’antifona si canti una volta all’inizio ed una alla fine; i versetti che seguono sono cantati colla pratica dell’alternatim tra cantori – che cantano la prima parte del versetto – e assemblea – che risponde con la seconda parte del versetto –. L’uso del tipo di tono nei salmi privi di melodia propria (in genere ad avere melodia propria sono i salmi dei responsorî nella Liturgia delle Ore e alcuni salmi del Proprio della Messa) dipende ovviamente dalla modalità in cui si canta l’antifona, ed ogni versetto si esegue secondo particolari regole. Prendendo, per esempio, il II tono salmodico, uno dei piú semplici, osserviamo una tipica procedura di salmodia.

 

Ogni modulo salmodico si divide in quattro parti:

  • a) intonatio,
  • b) tenor et flexa,
  • c) mediatio,
  • d) tenor et finalis;

inoltre, dal momento che ogni membro (ricordiamo che per membro si intende una parte compiuta del versetto. In genere si hanno due o tre membri in un versetto) si divide in due emistichî (due parti, formate ciascuna da una o due versi), il modulo stesso si suddivide secondo gli emistichî, separati da un asterisco. Quindi, le parti a. e b. e c. appartengono al primo emistichio, mentre d. è il secondo emistichio. La parte a. (intonatio) rappresenta esattamente il numero di sillabe da cantare in essa, a seconda delle figurazioni (in alcuni toni troviamo anche pes e clivis, che corrispondono ad una sola sillaba) e si canta solamente nel primo emistichio del primo membro del versetto; la parte b. contiene il tenor, ovvero la nota su cui si recitano le sillabe seguenti l’intonazione, e la flessione (flexa) indicata col segno † che viene usata quando il membro è composto da tre versi (dunque il primo emistichio è composto da due versi) e viene inserita come formula di ripresa per il primo verso. Qualora la parola da flettere possieda un accento diverso dalla costruzione del modulo, si può utilizzare una nota ausiliaria (di colore bianco) per far tornare l’accentazione; questo vale per tutte le formule di cadenza presenti nei moduli. La parte c. è la cadenza intermedia (mediatio) che conclude il primo emistichio del versetto; la parte d. corrisponde al secondo emistichio e comprende la formula di cadenza finale (finalis), che segue le stesse regole d’accentuazione della cadenza mediana. La formula finale non è unica: alcuni toni (II e V) ne hanno una sola, ma la maggioranza ne possiede diverse, da utilizzarsi ove prescritte. Nella Liturgia delle Ore le formule di cadenza finale non corrispondono a quelle tradizionali e, vista la loro numerosità, sono indicate dopo l’antifona, accompagnate dalla notazione convenzionale E U O U A E, che sarebbe un’abbreviazione di “saeculorum, amen”, formula finale del Gloria Patri, testo fisso alla fine di ogni salmo della Liturgia delle Ore, nonché del Proprio della Messa. Riportiamo a titolo esemplificativo la salmodia del primo versetto del Salmo 110 [109] Dixit Dominus sul II tono.

 

In questo caso, la flexa non è necessaria, né note ausiliare; si ricorda che gli accenti di ogni emistichio devono corrispondere a quelli indicati dal modulo; in questo caso, gli accenti dovevano cadere nella sillaba precedente le cadenze, cosa che appunto avviene (nel caso di Dómino, l’accento cade ovviamente prima, ma è una parola del tenor e non influisce nel computo, giacché la cadenza mediana è definita già da méo). I numeri romani I e II indicano i due membri del versetto e, come si può vedere, il secondo non fa uso dell’intonatio.

Entriamo adesso nella questione della presenza o meno di un accompagnamento al canto gregoriano. Esiste una diatriba tra coloro che affermano l’esclusivo spirito orizzontale del gregoriano e quindi l’illiceità di un qualsiasi accompagnamento e coloro che ammettono un sostegno strumentale ai cantori. Filologicamente parlando, il gregoriano è nato in un’epoca in cui gli strumenti musicali non erano utilizzati nella prassi liturgica, per cui, effettivamente, non avrebbe diritto né senso inserirvi un accompagnamento.

Tuttavia, a partire dalla Riforma Ceciliana, a fine ottocento, si è preferito permettere un accompagnamento di sostegno alle voci, purché fatto in modo rispettoso della modalità e della libertà ritmica del canto gregoriano. Nell’Ottocento, infatti, erano stati molti e gravi gli abusi fatti in tal senso, soprattutto per l’annullamento del primato del testo. Già di per sé l’organo ceciliano, provvisto anche di sonorità dolci e discrete, forniva uno strumento d’accompagnamento molto migliore degli organi ottocenteschi, ricchi di sonorità bandistico-orchestrali. Quindi, purché fatto adeguatamente, un accompagnamento non è da biasimare; anzi, può aiutare moltissimo nell’intonazione e nella dolcezza di pronunzia del canto per cori e assemblee non preparate. Questo accompagnamento si fonda su tre principî:

  • deve rispettare completamente la modalità del brano e le sue caratteristiche; quindi, non potrà comportarsi come un pezzo tonale: dovrà evitare modulazioni cromatiche, settime minori e rispettive cadenze, dovrà osservare uno stretto diatonismo e mettere in evidenza lo stile del modo; un buon punto di partenza è quello di utilizzare per l’accompagnamento solo le note presenti nella scala modale corrispondente, quindi senza alterazioni e modulazioni;
  • deve uniformarsi al ritmo implicito del testo gregoriano, enfatizzando i suoi accenti naturali e evitando un ritmo regolare disgiunto da quello della melodia; inoltre, è bene cercare il piú possibile note comuni, per poterle tenere senza doverle cambiare. Ciò favorirà il fluire libero della melodia, mentre un accompagnamento troppo accordale per ogni nota sarebbe pesante e troppo invasivo;
  • deve trovarsi al massimo allo stesso livello fonico della melodia, ovvero non potrà sovrapporre ad una frase della melodia una nota piú acuta anche se fissa; allo stesso modo risulta sgradevole il solo accompagnamento “ad accordi” senza sottolineare la melodia. Per questo stesso ammonimento, l’intensità dell’accompagnamento dovrà essere sommessa, sia come stile compositivo che come effettiva timbrica d’accompagnamento; in pratica, è consigliabile un accompagnamento a quattro voci piú o meno reali per il canto comune (anche con pedale) e a tre voci senza pedale per salmi e tratti eseguiti da salmisti o sezioni ridotte.

Le dissonanze che spesso si trovano negli accompagnamenti organistici non sono da biasimare, purché non troppo aspre e volte a sottolineare le inflessioni del testo o della melodia. A costo di essere pedanti, vogliamo ripetere che ogni minima sfumatura del testo è resa già da sola nel connubio tra melodia e testo senza bisogno di ausilî esterni per enfatizzarle. L’accompagnamento organistico ha il solo scopo di sostenere l’intonazione e dare sicurezza alle voci dei cantori.

Infine, per approfondire il discorso della timbrica organistica col canto gregoriano, si consiglia l’uso esclusivo di registri fondo (flauti, principali, violeggianti discreti) di otto piedi, al massimo di quattro. L’uso dei principali di quattro piedi deve essere scrupolosamente circoscritto alle formule comuni finali, come gli Amen. I flauti di quattro piedi, invece, aiutano l’intonazione precisa della melodia se uniti con un buon impasto di registri di otto piedi. Il pedale è altamente raccomandato, ad eccezione dell’accompagnamento a salmisti, con una buona base di sedici piedi, purché non troppo forte e adeguatamente sostenuta dagli otto.

Trasposizione delle melodie

Riguardo all’accompagnamento dei modi, si noterà che certi ambiti modali superano di molto la comune ampiezza della voce umana (si pensi al settimo modo); per questo motivo, si può e si deve trasporre una melodia in modo che sia cantabile senza fatica. Questa pratica non è un accomodamento dell’età moderna, tutt’altro. Anzi, è inverosimile pensare che nell’età d’oro del gregoriano si pensasse ai modi come a rigide strutture che indicavano l’altezza assoluta delle note; la funzione del modo era in buona parte anche quella di indicare uno stile ed un carattere da seguire; l’intonazione della nota di partenza, poi, era presa in modo che tutti fossero in grado di cantare il frammento melodico senza problemi.

Riportiamo delle semplici indicazioni su come trasportare i varî modi. Ovviamente queste prescrizioni sono solo di massima, in quanto, come detto, non sempre le melodie sottostanno al vincolo dell’ambitus modale e hanno un comportamento assai anomalo per cui si impongono altre scelte di trasposizione. Per ogni modo presentiamo un breve frammento esemplificativo, seguíto dalla trascrizione in notazione moderna e da un’eventuale trasposizione, quando necessaria.

  • I modo, da re3 a re4, da suonarsi approssimativamente in tonalità di re minore senza alterazioni. Generalmente si esegue cosí com’è scritto; in alcuni casi lo può trasportare di una seconda maggiore sopra (mi3 – mi4), giungendo quindi ad una tonalità approssimativa di mi minore con due diesis (anziché uno), di cui l’ultimo generalmente naturale, dato che corrisponderebbe al si del modo non trasposto, che essendo spesso bemollizato diviene naturale anziché diesis come sarebbe altrimenti. È un modo austero e spoglio, ma non per questo privo di grande spiritualità.

 

 

  • II modo, da la2 a la3, da suonarsi approssimativamente in tonalità di re minore/la minore senza alterazioni. È una modalità alquanto grave e quindi si traspone di una terza maggiore sopra (do3 diesis – do4 diesis), per giungere ad una tonalità approssimativa di fa diesis minore con quattro diesis (anziché tre), di cui l’ultimo generalmente naturale poiché corrispondente al si (per il quale valgono le considerazioni fatte precedentemente). Essendo appunto una modalità molto grave e anche piuttosto particolare, talvolta viene trasposto addirittura di una quarta sopra (re3 – re4), per giungere ad una tonalità approssimativa di sol minore con un solo bemolle (anziché due). Come stile è severo e profondo, molto meditativo; è uno dei modi meno usati e meno comuni nelle melodie gregoriane, ma è anche uno dei piú interessanti.

 

 

  • III modo, da mi3 a mi4, da suonarsi approssimativamente in tonalità di mi minore senza alterazioni. Si traspone di una terza minore sotto (do3 diesis – do4 diesis), giungendo ad una tonalità approssimativa di do diesis minore con tre diesis (anziché quattro). È uno dei modi piú ostici alla comprensione moderna, ma anche uno dei piú suggestivi. Molti gregorianisti usano concludere una melodia in terzo modo con un accordo dissonante non risolto, soprattutto in caso di inni strofici, per accrescere il senso mistico di questa modalità. Alcune volte, inoltre, si può anche non trasporre, essendo una modalità non particolarmente acuta (ad es. nel celebre Pange, Lingua)

 

 

  • IV modo, da si2 a si4, da suonarsi approssimativamente in tonalità di mi minore/la minore senza alterazioni o con un raro si bemolle. Solitamente si esegue come scritto, ricordando che nelle armonizzazioni ricorre spesso il tritono. Valgono le stesse considerazioni fatte per il III modo, considerando però che il carattere del IV è piú intimistico e riservato, in un certo senso lamentoso, ma non privo di armoniosità.

 

 

  • V modo, da fa3 a fa4, da suonarsi approssimativamente in tonalità di fa maggiore senza alterazioni o col si bemolle transeunte. Lo si traspone almeno di una terza minore (re3 – re4) sotto, giungendo ad una tonalità

approssimativa di re maggiore con tre diesis (anziché due), di cui l’ultimo è naturale quando ricorre il si bemolle. Vi sono alcuni rari casi in cui non è necessario trasporre, ma si tratta di un quinto modo atipico (come la Salve, Regina simplex). È un modo assai aperto ed allegro, ed ha ispirato molto i compositori successivi che hanno scritto melodie in stile gregoriano, aggiungendo in esso una certa vena lirica.

 

 

  • VI modo, da do3 a do4, da suonarsi approssimativamente in tonalità di fa maggiore/do maggiore senza alterazioni o, piú frequentemente, di fa maggiore/do maggiore col si bemolle. È la modalità che piú si avvicina alla nostra tonalità moderna ed ha un carattere devoto e placido, non esente da un certo slancio nelle melodie piú ornate; non si traspone quasi mai, se non raramente di una seconda maggiore sopra (re3 – re4) per giungere ad una tonalità approssimativa di sol maggiore con due diesis (anziché uno), di cui l’ultimo naturale se ricorre il si bemolle.

 

 

  • VII modo, da sol3 a sol4, da suonarsi approssimativamente in tonalità di sol maggiore senza alterazioni o, molto raramente, con un si bemolle. È il modo piú acuto e complesso degli otto e si può trasporre in diversi modi: se di una terza minore sotto (mi3 – mi4), si giunge ad una tonalità approssimativa di mi maggiore con tre diesis (anziché quattro); se di una terza maggiore sotto (mi3 bemolle – mi4 bemolle), si giunge ad una tonalità di mi bemolle maggiore con quattro bemolli (anziché tre), in una formula raramente usata; se di una quarta sotto (re3 – re4), si giunge ad una tonalità di re maggiore con un diesis (anziché due). Non è raro il caso in cui si debba trasporre addirittura di una quinta sotto (do3 – do4), giungendo quindi ad una tonalità approssimativa di do maggiore con un bemolle (anziché senza alterazioni). Anche il settimo tono può presentarsi in una forma atipica per cui non è necessaria alcuna trasposizione. È il modo a cui l’uomo moderno guarda con piú incertezza: pervaso da una diffusa sensazione di gioia, tuttavia non la dimostra apertamente come l’allegro modo V, né sfocia in un maestoso trionfo come l’VIII. Una solenne ma composta allegria è quella che contraddistingue il VII modo angelico, come disse Guido d’Arezzo.

 

 

  • VIII modo, da re3 a re4, da suonarsi approssimativamente in tonalità di sol maggiore/do maggiore senza alterazioni o, raramente, con un si bemolle. Si traspone generalmente di una terza minore sotto (si2 – si3), giungendo ad una tonalità approssimativa di mi maggiore/la maggiore con tre diesis. Spesso è anche meglio trasporre di solo una seconda minore sotto (do3 – do4), giungendo cosí ad una tonalità approssimativa di fa maggiore con due diesis (anziché uno). È una modalità molto regale e maestosa, ma non per questo terrena e mondana. La sua perfezione si riscontra nell’ampiezza degli intervalli.

 

 

Si noti che alcuni modi trasposti hanno medesimo ambitus: non si deve però pensare che essi siano uguali, poiché cambiano la repercussio e la finalis, unici elementi distintivi del modo. Non si dimentichi, che si parla solo di “tonalità approssimative”, proprio perché le scale del modo trasposto sono scale naturali e quindi diverse da quelle delle tonalità indicate. La tonalità indicata serve solo ad organizzare le alterazioni. Ma rimane sempre un margine d’incertezza. Del resto, lo si è detto fin dall’inizio: il sistema modale del canto gregoriano non coincide affatto con una mera semplificazione del nostro sistema tonale.

Note

  1. MusicaLiturgica.Altervista.org, http://musicaliturgica.altervista.org/appunti.html
  2. Sacrosantum Concilium, cap. VI.116