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Tratto da MusicaLiturgica.altervista.org[1]

Indice

Premessa

Questa trattazione complessa ed articolata intende fornire all’utente tutti i sussidî ed i chiarimenti di cui necessita riguardo al canto gregoriano. Chiarimenti soprattutto di natura strutturale e schiettamente pratica; non di ordine teorico o teologico o ancor piú musicologico. Si consiglia di leggere questo sussidio prima di avventurarsi in quello sui Vespri o sulla Messa, giacché in codeste trattazioni si dànno per scontati elementi che non sono immediati e potrebbero risultare oscuri per il lettore profano o non pratico dell’argomento.

Non è nostra intenzione quella di stilare un trattato teorico-pratico di canto gregoriano che competa con quelli scritti da eminenti studiosi gregorianisti, né abbiamo la presunzione di sostituirci alla preziosa risorsa dell’esperienza di tanti maestri di cappella e praticanti del canto gregoriano. Tuttavia, e ci preme sottolinearlo, questo manuale non nasce dalla trasposizione in chiave semplicistica di nozioni scritte in un manuale, in un corso scritto; anzi, qui di teoria si troverà proprio il minimo indispensabile, ciò che basta di storico per inquadrare la tematica e quanto abbisogna per evidenziare certe problematiche d’interpretazione. Tutt’altro: questa trattazione si basa sull’esperienza diretta sul campo e su quella indiretta di maestri e insegnanti, la quale è stata unita sia al necessario fondamento teorico che al buonsenso ed alla facoltà di cercare soluzioni adeguate per le parrocchie, dato che non tutte le realtà italiane sono in grado di adottare il canto gregoriano in modo completo.

Il punto di vista di questa trattazione, dunque, prende le mosse dalla necessità di finalità pratiche nella realtà e dalla giusta educazione formale, dalla quale non si può prescindere. Ma soprattutto, è nostra intenzione recuperare il canto gregoriano in funzione della motivazione originale per cui è nato: la liturgia. Dimenticare che liturgia e canto gregoriano sono una cosa sola, inscindibile e perfettamente armonizzata significa ridurre a mera archeologia ed a sterile accademismo tutto quanto è stato detto, viene detto e sarà detto su di esso.

Cenni storici e generali

Il canto gregoriano è il canto proprio della liturgia cattolica. Almeno fino a metà del Basso Medioevo, con l’inizio della polifonia vera e propria, liturgia e canto gregoriano avevano il medesimo significato: non esisteva liturgia senza canto, né canto (o, piú precisamente, musica) esisteva senza liturgia.

Esso venne elaborato sin dal tardo VII secolo, risultando dalla fusione del canto romano antico con quello gallicano. Generalmente si attribuisce la riunione e la raccolta delle melodie in un volume unico (Antifonario) a papa Gregorio I “Magno”, sebbene gran parte del repertorio gregoriano risalga a non molto prima del IX secolo, epoca in cui Gregorio era già scomparso; probabilmente l’Antifonario di Gregorio, andato perduto, conteneva melodie proprie del canto romano antico, oppure melodie di sua stessa composizione, dato che dalle fonti emerge il fatto della sua perizia in àmbito musicale.

Si deve al proposito ricordare che non si conoscono gli autori dei canti gregoriani, tanto meno quelli dei canti romani antichi (quest’ultimi non erano neanche scritti, come diremo in séguito), trattandosi probabilmente di religiosi che componevano una melodia per le liturgie del proprio monastero; da ciò si può ben immaginare come inizialmente non si pensava certo di diffondere le melodie. Ogni monastero e ogni comunità religiosa (in senso lato, anche le diocesi) possedeva dunque un repertorio proprio; qualche canto poteva essere comune a piú territori, ma è difficile pensare che una chiesa franca cantasse le medesime melodie di una basilica romana.

Esiste quindi una controversia sull’origine effettiva del canto gregoriano: si ipotizza che nei secoli precedenti Gregorio Magno prevalesse la figura del rapsodo, che componeva le varie melodie attraverso dei centoni, ovvero frammenti di schemi melodici che venivano combinati in varî modi per formare una linea completa. Nel repertorio oggi sopravvissuto si possono osservare questi centoni in particolari composizioni. Per concludere questa breve nota storica, c’è da ricordare che il canto gregoriano come lo vediamo ad oggi probabilmente non corrisponde a quello che i monaci altomedievali cantavano. Nel tempo al repertorio tardo antico si aggiunsero infatti nuove melodie, composte nel Basso Medioevo o nel Rinascimento, alcuni addirittura si spingono al XVI secolo; i canti esistenti, inoltre, furono modificati e adattati, talvolta rielaborati in forme polifoniche misurate (organum). Alcune composizioni tardo-gregoriane, come ad es. la Missa VIII de Angelis, perdono le caratteristiche proprie del gregoriano, in particolare la struttura armonica modale. Per stabilire se un canto è autenticamente gregoriano, occorre visionare il cosiddetto Antiphonale Missarum Sextuplex, raccolta dei sei piú importanti manoscritti che attestano le melodie gregoriane; è stato composto nel 1935 e rimane un’opera fondamentale per lo studio sistematico del canto gregoriano. Molti dei canti piú noti non sono autentici canti gregoriani, ovvero non sono attestati nell’ Antiphonale Sextuplex; si tratta di melodie ispirate all’estetica gregoriana, ma composte in epoche successive con canoni stilistici ovviamente diversi da quelli dell’età tardo-antica.

La caratteristica principale che distingue il canto gregoriano è la sua linea unisona, ovvero lo si esegue senza accompagnamento di strumenti né in polifonia di voci. Si ha dunque nel gregoriano uno sviluppo preminentemente orizzontale, differentemente dalla polifonia ove lo sviluppo delle linee è verticale o comunque composito tra verticale ed orizzontale. I monaci che lo praticavano alimentavano lo spirito di convivenza e fratellanza appunto cantando ad una voce sola, che annulla ogni individualismo ed ogni separazione nel gruppo, il quale diventa cosí una voce unica in preghiera a Dio. È un concetto che permane nello spirito dei cori contemporanei, sebbene in misura minore.

Lo sviluppo orizzontale del canto gregoriano e la sua apparente povertà esteriore fa quindi che in esso non si ammettano costrizioni ritmiche o melodiche: l’andamento della linea segue gli accenti tonici ed il significato del testo a cui è legata, fatto per cui nel canto gregoriano non esiste suddivisione di tempo, che viene dal testo, né regole melodiche vincolanti, neppure quando in passaggî melismatici ed ornati è la melodia che esprime un concetto insito nel testo, prevalendo su di esso.

È per questo motivo che a buon diritto si cita il canto gregoriano come massimo esempio di rapporto strettissimo tra testo e melodia: la melodia non solo è a totale servizio del testo, ma addirittura ne interpreta, con le sue figurazioni, il significato. L’assenza di ritmo definito non deve certo far pensare che non esista un ritmo: esso viene dal testo, dalla sua entità teologica e dalla sua collocazione funzionale nella liturgia. Un canto per la Messa sarà differente da uno per la Liturgia delle Ore, sia per il significato, sia per la necessità pratica che lega il gregoriano alla liturgia.

Repertorio gregoriano

Riguardo al repertorio gregoriano, si deve ricordare che la grande mole delle melodie si può suddividere in tre grandi famiglie di tipo stilistico:

  • i canti di genere sillabico (accentus), in cui ad ogni nota corrisponde una sillaba;
  • i canti di genere neumatico (concentus semiornato), in cui vi sono sillabe alle quali corrispondono due o tre note;
  • i canti di genere melismatico (concentus ornato), in cui ad ogni sillaba possono corrispondere diverse note ed in cui la melodia prevale in un certo senso sul testo (ma si veda supra).

Dal punto di vista del genere di composizione, nel repertorio gregoriano troveremo, per quanto riguarda i canti dell’Ufficio delle Ore diverse forme compositive:

  • Antifona, breve frase melodica associata a salmi che viene ripetuta dopo ogni versetto;
  • Cantico, componimento consistente in un certo numero di versetti, cantati senza alcun ritornello (modo in directum);
  • Responsorio, anch’esso legato ad un salmo, è una melodia ornata o semiornata che segue le letture ed è caratterizzato dall’interazione solista/assemblea. Il responsorio può essere breve o prolisso a seconda della mole dello stesso;
  • Inno, composizione poetica generica che apre ogni sessione dell’Ufficio.

Per quanto riguarda i canti della Messa, distingueremo invece:

  • i canti dell’Ordinario (Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei), che non mutano mai nel testo e sono disponibili in diverse melodie a seconda del tempo liturgico;
  • i canti del Proprio, i cui testi variano a seconda delle festività:
    • Introito, il canto che accompagna la processione d’ingresso, che ha come testo la corrispondente antifona. È in genere in stile semiornato;
    • Graduale, corrisponde all’odierno salmo responsoriale, composto in stile ornato, spesso vere e proprie manifestazioni di virtuosismo vocale. Le melodie dei Gradualia sono composte da centoni, ovvero frammenti melodici ricorrenti nelle linee degli altri e sono tra le piú belle e suggestive del repertorio gregoriano;
    • Alleluia, dalla melodia in genere sillabica o comunque poco ornata, contiene l’acclamazione “alleluia” tre volte, dove la -a finale della terza prosegue in complesse fioriture melismatiche, dalle cui propaggini prendeva inizio la Sequenza. Nel tempo di Quaresima, l’Alleluia era (ed è) sostituita dal Tratto, anch’esso eseguito nel modo in directum;
    • Sequenza, che segue l’Alleluia, è una composizione generalmente sillabica o semiornata, attestata oggi nelle festività piú importanti. Nel medioevo furono scritte centinaia di sequenze, delle quali sono sopravvissute solo quattro (Stabat Mater, Victimae Paschali, Lauda Sion, Dies Irae).
    • Offertorio, in stile semiornato o ornato, accompagna la processione offertoriale ed i riti ad essa collegati. Sebbene in origine avesse una forma responsoriale, in séguito i versetti furono aboliti e l’Offertorio si limitò alla sola antifona;
    • Communio, anch’esso in stile piú o meno ornato, accompagna la processione eucaristica dei fedeli ed è di forma responsoriale, associato ad un salmo;
  • i salmi, i versetti, i cantici e tutte le parti variabili di un brano, senza melodia propria, vengono cantati generalmente secondo i toni salmodici, che sono uno per ogni modo, piú uno (tonus peregrinus) di uso particolare

e circoscritto ed altri assai rari (tra cui i toni in directum e irregularis).

Per quanto riguarda la loro ripartizione fisica nei volumi, le melodie vengono ripartite a seconda del loro uso: si parla di Graduale per le parti riguardanti la Messa (Proprio e Comune, quest’ultimo comprendente le parti del proprio accorpate per classi omogenee di festività, come Martiri, Confessori, Beata Vergine ecc.), e di Antiphonale per le parti della Liturgia delle Ore; il Liber Usualis costituisce un tomo di composizione eterogenea contenente sia parti relative a Messa che a Liturgia delle Ore; il Kyriale contiene le parti dell’ordinario e i moduli fissi per orazioni, letture, risposte, salmi. Oltre a questi tre libri fondamentali, si aggiungono altri testi ad uso particolare e specifico.

Semiografia della notazione quadrata

 

Il canto gregoriano è scritto mediante la notazione quadrata, di tipo diastematico, ovvero che colloca i segni indicanti ogni sillaba (neumi) entro linee e spazi definiti. L’invenzione di questo tipo di notazione, i cui primi embrioni si rintracciano a partire dal XI secolo, è attribuita con una semplificazione storica al monaco camaldolese Guido d’Arezzo. Prima del IX-X secolo, periodo in un cui iniziò una ricerca della diastemazia, ovvero la definizione degli intervalli melodici, la musica veniva trascritta in modo adiastematico, ovvero con neumi in campo aperto, senza alcun riferimento in base all’intervallo o all’intonazione. Questo sistema di scrittura, che permane ancóra oggi nel canto bizantino, in pratica aveva significato solamente per chi già conosceva la melodia, dando indicazioni esecutive sia dinamiche che agogiche attraverso le cosiddette litterae significativae, le quali indicavano come procedere nell’esecuzione allo scorrere del testo.

L’utilizzo di una simile notazione, come si può facilmente arguire, doveva creare diversi problemi di entità tecnica: i cantori erano costretti ad imparare a memoria una grande quantità di melodie prima di essere in grado di cantare adeguatamente nella liturgia; ciò richiedeva oltre venti anni. Proprio a questa difficoltà di formazione dei musici cercò di ovviare Guido d’Arezzo o chi per lui inventò la notazione quadrata.

In questa notazione i neumi sono posti in spazî e linee di un tetragramma, ossia un rigo a quattro linee. All’inizio del rigo si trova la chiave (1) , che indica la posizione di una nota del rigo e fornisce il punto di riferimento per leggere la linea. Esistono due tipi di chiavi, quella di do e quella di fa, utilizzata raramente. Possono trovarsi su diverse linee, a seconda dell’estensione del brano (ambitus), la chiave di do sulla terza o sulla quarta indifferentemente, raramente sulla seconda, mai sulla prima; la chiave di fa si trova solo sulla terza linea, ad eccezione di rarissimi casi in cui si trova sulla quarta. Qualora l’ambitus sia particolarmente ampio e superi lo spazio disponibile nel tetragramma, si supplisce con taglî addizionali sopra o sotto il rigo, altrimenti è possibile spostare o cambiare la chiave.

Alla fine di ogni tetragramma si trova la cosiddetta guida custos (9) che indica la nota seguente che si troverà nel rigo successivo. Non ha alcun significato musicale, ma è solo un aiuto per permettere una lettura piú rapida e scorrevole al cantore.

Poiché il canto gregoriano è essenzialmente al servizio del testo, all’interno di esso saranno segnalate delle pause e delle cesure. Ciò viene fatto attraverso le stanghette:

  • il quarto di stanghetta (divisio minima) indica la fine di un inciso e, nella pratica, un breve respiro (7);
  • la mezza stanghetta (divisio minor) indica la fine di un membro del brano, composto da piú incisi, e rappresenta nella pratica una breve pausa (10);
  • la stanghetta intera (divisio maior) indica il termine di un periodo musicale e coincide spesso con la fine di una frase del testo;
  • la stanghetta doppia (divisio finalis) segna la conclusione del brano oppure l’alternanza tra coro/assemblea e solista (in particolare nei canti dell’Ordinario) (8).

Gli intervalli e, in misura minore, il ritmo, sono scritti mediante i neumi (2). Ogni neuma trascrive una formula melodica corrispondente ad una sillaba; è perciò sbagliato dire che un neuma corrisponde ad una nota moderna, poiché non necessariamente una di esse corrisponde ad una sillaba. Diversamente, un neuma trascrive sempre e comunque una sola sillaba, anche nei casi di figurazioni neumatiche assai complesse. Nella semiografia gregoriana si distinguono i seguenti neumi:

  • il punctus, unità elementare. Corrisponde alla nota isolata e ritmicamente rappresenta quasi sempre una nota di passaggio; nel genere sillabico, ove il punctus ha la prevalenza, questi assume un valore ritmico praticamente

neutro, cui si oppone solo il punctus con il punto, che ne allunga la durata. Si presenta anche in forma di losanga (p. inclinatus) allorché assume un ruolo subordinato di nota d’insieme;

  • la virga, che nelle arcaiche notazioni adiastematiche aveva un significato di innalzamento melodico, ha un ruolo fondamentale nel sorreggere e supportare il ritmo della frase segnalando due attacchi consecutivi.

Quando è seguíta da puncti inclinati per formare il climacus, segna l’accento maggiore della frase;  

  • la stropha (o strophicus) è un neuma secondario che non si trova mai da solo, ma solo in combinazioni di altre figurazioni, dette distrophae o tristrophae, a seconda se in esse si ripeta due o tre volte il neuma strophicus; sebbene la tendenza comune sia quella di interpretare la distropha o la tristropha come un punctum di doppia durata, in realtà l’iterazione delle due note deve farsi sentire. Inoltre, oggi si interpretano queste

figurazioni come ripetizioni di note alla medesima altezza, ma pare che in antichità – e lo confermano le notazioni adiastematiche – le si interpretassero come un lieve vibrato o tremolio della voce, salendo o scendendo di un semitono;

  • la clivis rappresenta un gruppo di due note discendenti, cantate in ordine dall’alto verso il basso. Ritmicamente è una figurazione accentata, in cui la prima nota riceve sempre un accento d’intensità, per poi proseguire

con l’altra che sarà subordinata ad essa;

  • il pes (o podatus) è un gruppo di due note ascendenti, cantate in ordine dal basso verso l’alto. La prima nota riceve un accento prettamente ritmico, senza implicazioni d’intensità, dato che il pes in genere rappresenta l’elemento di raccordo tra due frasi differenti;

 

  • il climacus è un neuma di tre o piú note, composto da una virga seguíta da puncti inclinati. È un piccolo melisma discendente, il cui accento è generalmente posto sulla virga: raramente e solo in caso di frasi molto lunghe, un lieve accento può cadere su una nota di mezzo. I gregorianisti concordano nel definire il climacus cosí come lo abbiamo presentato come una confusione con la virga subpunctis: il climacus nelle notazioni adiastematiche di Laon e di San Gallo (le piú antiche e significative) è infatti una figurazione leggera, ornamentale e priva di accento proprio;
  • lo scandicus ed il salicus sono neumi di tre note ascendenti, non distinti tra di loro nella notazione vaticana. Per la loro rappresentazione sono impiegati indifferentemente sia la composizione di un punctum e

un podatus che un pes che precede una virga. Li si interpreta come aventi un accento sulla terza nota, considerando dunque le prime due come ornamenti;

 

  • il torculus è un neuma di tre note, la seconda piú acuta delle altre due. È una figurazione che riceve un leggero accento di spinta sulla prima nota, ma mette in evidenza anche le altre due, anzi, è la seconda nota a rappresentarne la vetta e quindi è quella che può imporsi sulle altre sia in durata che in intensità. L’ultima nota, infine, conduce alla conclusione e come tale è rilassata e calma;
  • il porrectus è la variante grave del torculus, essendo composto da tre note, di cui la seconda è la piú grave. A livello ritmico la prima nota del porrectus è forte ed accentata, la seconda e la terza sono secondarie;

 

  • il quilisma è una nota dentellata di forma irregolare che si trova sempre al centro di un movimento ascendente e mai da sola. Il suo effetto è quello di prolungare leggermente la nota che lo precede, senza avere alcun

effetto sul suo stesso ritmo.

 

Nella notazione quadrata ogni neuma può essere provvisto o meno di segni d’accento convenzionali. L’episema orizzontale (4) indica che il neuma sottostante deve essere interpretato con un accento che ne aumenti la durata; l’episema verticale (5) indica che quel neuma è un appoggio ritmico e come tale va evidenziato; il punto mora (6), infine, raddoppia la durata della nota a cui è apposto e indica che quel neuma è un elemento ritmico a sé stante o una sillaba di particolare importanza. Non a caso gli episemi verticali e orizzontali si trovano spesso sulle sillabe di parole come Deus, Dominus o simili per dare ad essere maggior risalto.

Il canto gregoriano si sviluppa in una melodia prevalentemente diatonica, seguendo una scala naturale, detta modo, di cui si parlerà in séguito, per cui non ammette alterazioni, ad eccezione del bemolle (3); questo può essere applicato al si, se quest’ultimo venisse a creare quella figurazione chiamata tritono. A tal proposito si ricorda il distico mnemonico medievale:

Una nota super la, semper est canendum fa.

In pratica, quando l’ambitus della melodia superava l’esacordo naturale allora ammesso (do-la), si ricorreva alla pratica della solmisazione, che consisteva nel trasporre l’esacordo naturale una quarta ed una quinta sopra: quello che partiva da fa (fa-re) era detto esacordo molle, e conteneva il si bemolle, mentre quello che partiva da sol (sol-mi) era detto esacordo duro, e conteneva il si naturale. I nomi delle note erano gli stessi per le sei posizioni dei tre esacordi. Con questa pratica era possibile cantare brani il cui ambitus era piú ampio dell’esacordo naturale.

È adesso opportuno parlare anche di come si trascrive la notazione quadrata in quella moderna. Premettiamo súbito che nessuna trascrizione, ancorché accurata, potrà rendere alla perfezione il significato musicale della notazione originale, la quale è già di per sé una semplificazione delle arcaiche notazioni adiastematiche in campo aperto.

Nei secoli passati si consideravano poco le differenze ritmiche che intercorrono tra i neumi diversi, a causa del tempo relativamente lento a cui si eseguiva il gregoriano. A partire dalla Riforma ceciliana, si è approfondita la questione della trascrizione parallelamente alla rivalutazione del gregoriano e la formulazione di accompagnamenti ad esso.

Si possono adottare due metodi di trascrizione: o si fa uso di semplici punti neri (note senza gambo, per intendersi), o si utilizzano appropriatamente figurazioni ritmiche diverse. Sebbene la prima soluzione possa sembrare la piú immediata, essa non ha mai riscosso grande successo, a causa della difficoltà che pone nel caso di debba realizzare per iscritto un accompagnamento; inoltre non definisce bene le differenze ritmiche tra i neumi. Per la seconda soluzione, invece, si consiglia di utilizzare unicamente i valori di croma per la maggior parte dei neumi, e di seminima per quelli particolarmente piú lunghi,

ovvero i neumi con punto mora, i neumi precedenti un quilisma o un gruppo di neumi d’uguale altezza ripetuti piú volte di séguito (come la distropha o la tristropha); in quest’ultima situazione – e solo se alla distropha/tristropha seguono altre note –, dato che effettivamente l’esecuzione sarebbe diversa da una semplice nota piú lunga, si può segnalare la presenza delle strophae con un marcato (^) sopra la nota che le trascrive. Nel caso di gruppi di neumi che stanno sopra la stessa sillaba (melisma), anche nella trascrizione le note si uniscono mediante legatura di portamento e, se si usano le crome, i gambi di esse vanno uniti mediante il noto collegamento trasversale. Riportiamo qui sotto la trascrizione dell’antifona Ubi caritas che abbiamo presentato all’inizio:

 

Note